total look Tod’s
styling Other srl / Vanessa Bozzacchi e Sara Castelli Gattinara
Ph Maria La Torre
Mua Isabella Avenali
Hair Monica Marchetti
Location Village Studio Roma
Camilla, “Come quando eravamo piccoli” segna il tuo esordio alla regia con un documentario autobiografico. Come è nata l’idea di raccontare la storia di Zio Gigio e cosa speri arrivi al pubblico?
Quando mio fratello Michele mi ha chiamata, dicendomi che zio Gigio sarebbe andato in pensione, è diventato evidente per me che un’epoca stava finendo e che ne sarebbe iniziata un’altra che mi spaventava e allora ho capito che quel mondo che si stava chiudendo dietro di me andava indagato. Dovevo raccontare la storia di Zio, nato con una lesione cerebrale da forcipe 67 anni fa, di mio fratello e la mia, di quello che resta di una famiglia e delle scelte profonde che ci caratterizzano.
Quando ho iniziato a lavorare al copione mi sono messa a frugare nel materiale d’archivio della mia famiglia, per capire cosa mi sarebbe servito in scrittura. Cercando ho trovato una mini-dv girata da me nel 2002 con scritto: Documentario zio. Me l’ero scordata ed è rimasta lì, in una scatola, per 21 anni. Trovarla mi ha fatto capire che stavo facendo la scelta giusta.
Poi è arrivata Lungta film che mi ha aiutato a trasformare questa idea in un progetto concreto insieme alla famiglia Puma Trust e alla comunità bresciana: Umberta Gnutti Beretta, Gli Spedali Civili di Brescia con la sua fondazione, Brescia Mobilità e Albatros film.
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Nel film hai deciso di mostrarti in modo molto personale, mettendoti in gioco anche come protagonista. Cosa ti ha spinta a farlo e cosa hai scoperto di te stessa lungo questo percorso?
Le storie famigliari sono sempre storie universali, sono uno specchio nel quale guardarsi per assonanza o dissonanza ma che producono sempre un riflesso dentro di noi che ci può spingere a esplorare punti di vista differenti. Visto che la mia scelta è stata quella di usare il linguaggio del documentario mi sono detta che c’era un solo modo per affrontare il tutto: essere onesta. E lo sono stata, calpestando anche la mia vanità nel senso più ampio del termine. Stare in scena era una condizione necessaria, per il tema trattato e perché essendo io abituata a stare davanti alla macchina da presa, potevo aiutarli a muoversi nei sentimenti e nei ricordi. Non so ancora cosa ho scoperto di me stessa ma ho capito che nonostante tutto, noi tre, ci amiamo, ognuno a modo nostro.
Il film racconta il legame familiare e tocca temi come diversità e inclusione. Anche la figura di tuo fratello Michele emerge con forza, pur parlando poco. Come hai lavorato per trasmettere emozioni così profonde e che messaggio vuoi lasciare su questi temi?
In scrittura ho pensato che la cosa migliore fosse far emergere il più possibile le nostre diversità, spingendo su quelle avrei potuto far esaltare quello che invece ci caratterizza che credo sia l’umanità. Zio ha avuto la fortuna di avere una famiglia e un’intera comunità che gli è stata accanto e questo non è purtroppo la norma ma un’eccezione che gli ha permesso di vivere una vita piena. Io spero che guardando questo documentario, arrivati alla fine ognuno di noi possa capire che se non si è famiglia basta poco per essere comunità. Basta guardarsi attorno, siamo sfiorati ogni giorno da decine di persone che hanno bisogno di un attimo di attenzione. Non bisogna diventare crocerossin*, l’importante è fare. Mio fratello vive zio ogni giorno in presenza, io attraverso il telefono tutte le mattine e tutte le sere, ognuno fa quello che può.
Hai scelto una narrazione delicata, lontana da visioni morbose della realtà. Come hai mantenuto questo equilibrio durante il racconto?
Sono nata in una famiglia dove oltre a mio zio, c’era sua sorella Giovanna che era spastica. Le difficoltà sono sempre state tante ma mia madre ci ha insegnato che si piange fino a un certo punto e poi si deve ridere, questo insegnamento ci ha permesso di non diventare tristi per tutta la vita. Ci è stata dato una chiave per affrontare certe situazioni e l’ho usata anche per questo film.
L’intimità del film si percepisce anche grazie alla spontaneità e all’imperfezione delle immagini. Come hai lavorato per rendere la storia autentica e vicina al pubblico?
Ho scelto di girare con una sola macchina da presa, affinché non diventasse invadente per Zio e Michele che non erano abituati a starci davanti mentre per il viaggio, nel momento in cui facevamo le tappe, ho scelto di girare con la vecchia telecamera di famiglia, io e mio fratello ce la passavamo a turno, infondo stavamo costruendo i nostri nuovi ricordi. Questa scelta creava una continuità con i filmati di repertorio.
Durante la realizzazione hai detto di aver capito di preferire essere diretta come attrice. Cosa ti ha insegnato questa esperienza sul tuo ruolo davanti e dietro la macchina da presa?
Stare davanti e dietro la mdp per me è oggi troppo castrante. È stato evidente per me che le strade debbano essere separate. È meraviglioso quando da interprete vieni trasportata dal regista all’interno del suo mondo, sei protetta, aiutata, vai oltre le tue capacità, sei libera in un certo senso ed è come mi voglio sentire quando indosso i panni di un altro essere umano. La regia invece ti permettere di prendere per mano gli altri e farli entrare nel tuo mondo dove tutti lavorano per aiutarti a costruire la tua visione.
“Come quando eravamo piccoli” si inserisce nel filone di attrici italiane che passano alla regia. Cosa serve per raccontare storie con una sensibilità femminile e quali sfide devono affrontare oggi le registe?
Credo che si dovrebbe smettere di parlare di attric*, cantant*, scenggiat*, scritt* che “passano alla regia” ma si dovrebbe parlare di artisti che sentono l’esigenza di raccontare una storia e lo fanno nella forma che credono essere più giusta per quel racconto. Questo significa che non c’è stato a mio avviso alcun passaggio. Solo il modo più congeniale per quella storia.
Per raccontare storie con una sensibilità femminile servono donne o anime femminili. Le sfide che devono affrontare le donne oggi, su qualunque strada scelgano di camminare, sono quelle che purtroppo c’erano anche ieri, per quanto la situazione stia cambiando, dobbiamo ancora lavorare il doppio e cercarci il nostro spazio.