Simbolismo, dettagli e sfumature oniriche in un percorso “psico-visivo” che si muove liberamente dall’interesse per i nuovi media alla passione per il paesaggio e l’archeologia, fino all’ammirazione verso i grandi maestri del passato. La mostra dedicata a Mario Schifano, intitolata “Visioni dell’anima” e visitabile alla Galleria Lombardi di Roma sino al prossimo 2 dicembre, regala un’ampia panoramica sull’estro di uno dei protagonisti indiscussi dell’arte italiana del secondo Novecento. Con circa trenta lavori esposti, la retrospettiva svela l’influenza di artisti quali Giacomo Balla e i Futuristi, così come Giorgio de Chirico, René Magritte, Paul Cézanne e l’urbanista sovietico Kazimir Malevič, che scrisse: “Ho attraversato lo schermo blu del limite del colore e sono penetrato nel bianco. Vicino a me, compagni nocchieri, navigate in questo spazio senza fine. Un mare candido si stende davanti a voi”. L’ispirazione si fa evidente in alcune serie, dimostrando la capacità di assimilare e reinterpretare le suggestioni pittoriche del secolo scorso. La tecnica di Schifano, che con Franco Angeli e Tano Festa rappresentò il baricentro della Pop art europea, è altrettanto versatile quanto il suo stile. Tramite i celebri “Paesaggi anemici”, le “Stelle”, i “Cavalli” e le “Oasi”, il pittore e regista sperimenta l’uso materico, alternando la grafite allo smalto e lo spray alla vernice fluorescente. L’eclettismo che ne emerge è chiaro nelle tele: da emulsionate a monocrome, diventano icone dei suoi anni più prolifici che toccano i favolosi ’60 giungendo al decennio dei ’90. Su quei monocromi, dal ’63, cominciarono ad apparire le grandi scritte dei marchi “Esso” e “Coca-Cola”, un’inedita forma di sovradimensionamento semantico dei simboli, svuotati della logica consumistica con una critica sottile e, spesso, erroneamente tradotti in un sodalizio creativo con il sogno capitalista. “Chi è Mario Schifano? Forse neanche lui avrebbe saputo rispondere a questa domanda. D’Altronde, Ulisse, alla richiesta del suo nome da parte di Polifemo, disse di chiamarsi Nessuno. Diciamo allora che fu sé stesso quando si lanciava alla ricerca della sua condizione di Nessuno: lì lui era Tutti, perché condizione universale. Siamo, quindi, un po’ tutti Schifano, ma non sempre. Lo siamo quando, incontrando una sua opera, essa fa vibrare corde profonde e nostre, inconsce, sintonizzate con la vastità indivisa della vita, che affratella tutto a tutti – spiega Guglielmo Gigliotti nell’ampio catalogo che accompagna l’esposizione, curata da Lorenzo ed Enrico Lombardi, con l’apparato esplicativo di Ilaria D’Ambrosi -Santo e demonio, fu un grande irrequieto che trovava la via della salvezza solo per perderla. Sperimentatore indefesso, bruciava le sue tappe come sé stesso, cercando un ancoraggio possibile, ma sempre sfuggente alla realtà. Il disordine scomposto e montante del mondo che gli roteava intorno non presentava alternative alla sua energica fragilità, se non quella di calzarvisi. Per questo, se vogliamo capire meglio chi siamo, dobbiamo guardarlo, e oggi ancora di più, poiché Mario Ulisse Schifano ha viaggiato per mari al contempo ancestrali e moderni, scorgendo terre future”. Nei dipinti, eseguiti anche carta, si susseguono orizzonti, ricordi del deserto africano e del cielo libanese, fondendo fotografia e pittura come in “Paesaggio tv”, della seconda metà dei ’70. Dal lumen all’aerografo, con cui delinea frammenti di nuvole e prati, l’artista tratteggia sagome sfuggenti come souvenir in “Cavallo rosa”, icone e segni del suo presente in “Propaganda” del 1979, recuperando, dieci anni dopo in “Acquatico” e “Gigli d’acqua”, l’istinto e la velocità delle pennellate che si mescolano alla foga cromatica. Perché “Schifano è i suoi quadri”, sosteneva lo scrittore Goffredo Parise, “guardateli e lo conoscerete”.