Slow Fiber rappresenta una rivoluzione nel campo della produzione, del consumo e del mondo del tessile. È questa è la visione di Dario Casalini, che con il progetto da lui creato intende arrivare lontano e sensibilizzare il consumatore ad una percezione di acquisto più nitida e consapevole e ci ricorda che il “bello” non può più essere sinonimo di spreco, eccessiva produzione e fast-use. Dario Casalini ci parla di Oscalito, l’azienda di famiglia fondata da suo nonno e da lui portata avanti, e ci racconta di Slow Fiber, due realtà separate ma complementari e che guardano esattamente nella stessa direzione.
“Vestire buono, pulito e giusto” è il titolo del suo libro. Ma è anche un po’ un monito per ricordarsi ogni giorno di mantenere una coscienza responsabile ed ecologica?
Esattamente si. Io ho semplificato il tutto usando queste tre parole che sono poi quelle che ha utilizzato Carlo Petrini per Slow Food, la rivoluzione nel mondo del cibo. L’idea è quella di avviare un percorso verso un mondo più giusto e più vivibile per tutti. Per farlo bisogna prendere in considerazione, dal punto di vista del consumo, alcuni aspetti fondamentali che riguardano i prodotti che acquistiamo. Il titolo esprime tre concetti ma ne esistono anche altri due altrettanto rilevanti, ovvero il sano e il durevole. Ogni parola incarna un valore e l’obiettivo è quello di poter incarnare questi valori nelle nostre scelte e approssimarci verso un cambiamento, per evitare danni irreparabili, sia per il benessere collettivo sia per la società individuale.
Ha fondato il movimento Slow Fiber, oltre ad essere proprietario dell’azienda Oscalito. Una vita dunque dedita ad una visione di cambiamento ambientale e ad un processo produttivo che guardi alla sostenibilità. Come nascono, rispettivamente, questi due progetti e in cosa consistono?
Per quanto riguarda Oscalito, io rappresento la terza generazione. I meriti vanno in primis a mio nonno e successivamente a mio padre. Mio nonno è partito dal filo per arrivare al prodotto finito, usando fornitori di prossimità, tendenzialmente in Europa. Io ho semplicemente portato avanti tutto ciò, accorgendomi poi del fatto che il fattore “qualità” che mio nonno aveva messo al primo posto, fosse diventato un valore fondamentale a livello sociale ed ambientale. Ad un certo punto ho iniziato a chiedermi come mai i nostri clienti non si rendessero conto dell’importanza delle modalità che si utilizzano per arrivare al prodotto finito ed ho iniziato ad interrogarmi su alcuni temi. Ho deciso quindi di scrivere il libro e, dopo aver parlato con Petrini, ho deciso di dar vita ad un movimento che cambiasse le cose a livello di sensibilizzazione del consumatore finale: Slow Fiber. Una Slow Food del tessile. È partito questo progetto che si impegna a definire ogni parola con dei criteri di misurazione. Ogni nostra azienda, attraverso un percorso di approssimazione alla perfezione, prende in considerazione ogni aspetto in tutti i passaggi di filiera.
Crede che, ad oggi, si stia volgendo verso un cambiamento concreto rispetto ai valori dell’acquisto responsabile e del consumo dei prodotti tessili?
A parole siamo tutti attenti al green. Personalmente penso che questa tematica sia stata un po’, in un certo senso, catturata a livello di comunicazione e di marketing e di conseguenza svilita. Tutto ora sembra essere green. Il problema è che per noi l’etichetta verde ha un valore, la filiera è complessa ed i valori che la filiera deve averi sono tanti. A mio avviso il consumatore non ha ancora ben chiara la percezione del rapporto di causa-effetto rispetto a ciò che consuma. Tendiamo a piangere sul latte versato ma non si approfondisce fino in fondo. Se si studiano le mappe geografiche, ad esempio, ci si accorge che tra un paio di secoli è previsto che l’Emilia Romagna sia completamente sommersa dal mare. Si può non crederci, ma se si dà fiducia in ciò che dice la scienza, allora bisogna trovare un modello alternativo, senza scappare dalle complessità e semplificare. Dalla fibra al prodotto finito ci sono almeno dieci passaggi: bisogna filarla, tingerla, tesserla, tagliarla, cucirla, spedirla…In tutti questi passaggi bisogna valutare i pro e i contro. Il greenwashing per me è solo raccontare una piccola parte del tutto. Quello che noi vorremmo fare invece è arrivare alla sostanza di ogni cosa e far capire l’importanza di ogni passaggio, rivoluzionare i modi di acquisto e provare a cambiare davvero le cose.
Quale crede sia il giusto modo per arrivare ad un comportamento corretto e rispettoso verso noi stessi e verso l’ambiente che ci circonda?
Da Carlo Petrini ho imparato che “le rivoluzioni si fanno con il sorriso”. La prima cosa è essere convinti ed entusiasti di ciò che si fa. Banalmente ognuno secondo me deve agire secondo le proprie capacità e potenzialità. A volte il consumatore si sente attaccato nelle proprie abitudini, ritenendo di non dover cambiare. Tuttavia se non cambia il modo di consumo conseguentemente l’industria non cambierà mai. La nostra non vuole essere una rivoluzione di elite ma vogliamo che ognuno metta del suo, in base alle proprie possibilità. La questione del prezzo è fondamentale perché purtroppo rappresenta il primo indizio di cose fatte non bene. Basterebbe comprare meno ma molto meglio e ristabilire l’ordine delle priorità. Questo per me rappresenta un problema collettivo, al giorno d’oggi, e non più individuale, che non andrebbe sottovalutato.
In una sua dichiarazione ha parlato di “nuovo” e di “bello”, ecco qual è la sua personale visione di bellezza?
Partiamo dal “nuovo”: posso dirti che per me il problema inerente al “nuovo” è nella quantità e nella velocità. Fare tante più cose in meno tempo, solo per creare la cosiddetta “società dello spreco” non serve a niente. Siamo contrari all’idea di standard, quantità e velocità inerenti al “nuovo”. Per noi il bello non significa bello ad ogni costo. La nostra idea di bellezza deve contenere dei valori per poter essere definita tale. Non possiamo più concepire il bello “a qualunque prezzo” per l’ambiente e per la società. I valori sono il buono, il sano, il pulito, il giusto e il durevole. Il buono rappresenta il rapporto con il territorio, il saper scegliere una filiera in base alla condivisione dei valori. Il sano è quel qualche cosa di salubre per chi indossa i capi e si riferisce alla chimica. Il pulito è l’impronta ambientale e noi cerchiamo di ridurla. Il giusto per noi è il lavoro, lavorare in ambienti salubri. Intendiamo recuperare il concetto del lavoro come di un qualcosa che ci definisca come persone e ci migliori. Il durevole significa non produrre capi che vadano in discarica troppo rapidamente, evitare lo spreco, ridurre le quantità e la velocità ed insistere sulla durevolezza del capo e sulla qualità. In passato le tre cose che si tramandavano di generazione in generazione erano i gioielli, i palazzi e i vestiti. Oggi è quasi impensabile citare i vestiti in questo elenco. E invece dobbiamo tornare a questa visione. Dunque, solo mettendo insieme tutti questi valori si dà un senso alla bellezza.
Quali sono i focus sui quali intende concentrarsi, ora ed in futuro?
Sicuramente il focus principale è quello di sensibilizzare il consumatore finale. Per noi è importantissimo preservare una filiera che, a nostro avviso, è parte integrante del territorio. Noi facciamo tantissimo turismo industriale, molte persone vengono a visitare non solo il nostro patrimonio culturale e paesaggistico ma anche quello aziendale. Pensiamo all’importanza che diamo al cibo ed al turismo, allo stesso modo dovremmo dare uguale valore al tessile. La sfida del futuro è quindi quella di recuperare il piacere di fare le cose e di farle bene ed integrare tutti questi aspetti. Noi vogliamo far capire che ci si impegna si può riuscire nell’obiettivo. E speriamo di arrivare a far riappropriare le persone di un quel complesso culturale che include anche la manifattura.