Forse per una volta la cultura ha avuto la meglio. O almeno piace pensare che abbia vinto una delle battaglie di una guerra che dura ormai da troppo tempo e che la vede sempre più sacrificata, ai piedi delle logiche di mercato.
Sì perché se non fosse stato per la passione e l’interesse di tanti cittadini, il lancio di una petizione pubblica e il sostegno delle istituzioni, all’interno dell’elegante e rinnovato condominio al numero 11 di Via Ciro Menotti oggi non ci sarebbe più un teatro, ma un garage. Il teatro Ciro Menotti infatti sarebbe stato venduto come tutto lo stabile e oggi non potremmo assistere ai numerosi spettacoli offerti dal programma del 2021-22 del Menotti Teatro Filippo Perego, il nuovo nome della struttura acquistata dall’omonimo Trust benefico, né potremmo apprezzarne tanti artisti.
E soprattutto non si sarebbero potute portare avanti quelle attività e quelle iniziative volte alla ricerca, allo scambio e alla contaminazione di idee che fin dal 1969, anno della sua fondazione, distinguono questo teatro sempre impegnato a divulgare cultura. La stagione, che include 21 titoli tra produzioni e spettacoli ospiti, ha già concluso con successo diversi spettacoli tra cui quello dei ballerini di No Gravity, il racconto di Romina Mondello di “Jackie”, il teatro di Saverio La Ruina, una rivisitazione in chiave di concerto dello spettacolo “Far finta di essere sani” ideato 50 anni fa da Giorgio Gaber, e “Fuga dall’Egitto”, una raccolta di testimonianze di personaggi che descrive l’attuale situazione in Egitto.
Dal 22 febbraio inizierà “L’uomo dal fiore in bocca” di Luigi Pirandello con Lucrezia Lante della Rovere, che lascerà poi spazio alle storie comiche di “Benvenuti al Menotti”, le evoluzioni del Laboratorio teatrale della Compagnia della fortezza nello spettacolo “Naturae” e altri ancora (https://www.teatromenotti.org per consultare il programma completo).
Un mix ideato da Emilio Russo, direttore creativo del teatro, che unisce la musica con la parola, il puro svago anche comico con l’impegno civile, i classici del passato, rivisti in chiave moderna per parlare al futuro.
Alcuni suoi colleghi, registi, attori e operatori dello spettacolo e del teatro, si sono lamentati di non essere stati supportati abbastanza dalle Istituzioni durante la pandemia. Come direttore creativo di questo teatro, cosa ne pensa?
Da questo punto di vista mi sento un po’ in controtendenza perché i problemi della cultura sono molto più vecchi della pandemia.
Per quel che riguarda le strutture, e spero che i colleghi lo riconoscano, devo dire sinceramente che gli enti locali lo stato e le istituzioni, hanno continuato a sostenere le nostre strutture e quel poco di attività fatte. Nessun teatro ha perso un euro in termini di di sovvenzioni.
Diversa cosa sono i mancati incassi, ma per onestà intellettuale si dovrebbe dire che a fronte di mancati incassi c’è stata anche una forte diminuzione delle spese perché non sono stati prodotti gli spettacoli. E siccome le nostre sovvenzioni sostengono anche questo deficit, facendo un piccolo calcolo le perdite non sono poi così ingenti.
Il discorso però è diverso per quanto riguarda i lavoratori dello spettacolo, i tecnici e tutti gli addetti che sono stati un po’ abbandonati anche se ogni struttura poteva provvedere autonomamente. Il nostro teatro per esempio ha mantenuto i contributi pubblici dagli enti locali e dallo Stato e abbiamo anche ottenuto la cassa integrazione, così abbiamo potuto effettuare il reintegro del 40% degli stipendi.
Quindi mentre la politica di questo settore in questi ultimi 20-30 anni e stata un disastro totale, in questa precisa circostanza i comportamenti sono stati abbastanza sorprendenti. D’altra parte da sempre siamo abituati a ritardi e decisioni assurde. Siamo persino passati dall’essere giudicati per la qualità al giudizio matematico, basato su algoritmi.
Cosa si potrebbe fare per il vostro settore?
In questo paese è troppo difficile fare teatro, musica e spettacolo. Da sempre.
In generale per colmare il vuoto che ci divide da altri paesi più civili di noi bisognerebbe investire di più e meglio. A livello nazionale la percentuale della cultura è lo 0,02% del bilancio nazionale, contro il 2-3% degli altri paesi. Vanno colmate le sperequazioni di contributi aumentandoli un po’ per tutti e distribuendoli meglio.
E’ ovvio che chi ha più sostegno economico riesce ad avere più pubblico perché ha più mezzi per promuoversi ed è a quel punto che si aumenta o si crea la sperequazione.
Inoltre si fa poca analisi e spesso le leggi arrivano troppo in ritardo risultando inadeguate perché scollate dalla realtà.
Insomma, non esiste la cultura del teatro.
C’è chi dice che il teatro dovrebbe essere inserito come disciplina scolastica….
I paesi dell’est avrebbero da insegnarci tantissimo in merito. Laggiù andare al teatro è come andare a scuola, è normalissimo. Qui lo sta diventando, ma la strada è ancora lunga. Tuttavia c’è un dato confortante che denota che il pubblico è migliore dei governanti e degli operatori. E’ molto attento e non va sottovalutato. Sa scegliere, capisce se l’operazione è intellettualmente scorretta. Un pubblico come quello milanese per esempio commuove perché tutti i giorni ci sono 30-40.000 persone che vanno a teatro o sentono concerti, grazie anche alle prenotazioni online sollecitate dalla pandemia. Oggi il pubblico va al teatro come se andasse al supermercato, mentre una volta era più difficile oltre a costare molto di più. Alcuni dicono che costi troppo poco, io invece penso che dovremmo avere più sostegno e mantenere i prezzi calmierati.
Di certo però va ampliato il pubblico, raggiungendo per esempio i nuovi cittadini stranieri, gli immigrati di seconda e terza generazione che per ora frequentano poco il teatro. Andrebbe fatto qualcosa…non mi piace usare il termine “integrazione”, preferisco la parola “incontro”: qualcosa per incontrare i nuovi cittadini. Nelle biblioteche per esempio hanno creato degli scaffali dedicati (dopo lunghi studi per cercare di capire perchè non le frequentassero tanto). A livello teatrale bisognerebbe porre attenzione ai palinsesti e creare per esempio delle compagnie miste. Sappiamo già che funzionerebbe come il record di incassi che abbiamo fatto qualche anno fa quando abbiamo affittato i locali per il concerto di un famoso cantante pop colombiano. Abbiamo avuto un pubblico pazzesco e ciò che ci ha colpiti è stata l’espressione di un forte senso di appartenenza con gruppi di spettatori che sventolavano le bandierine della loro nazione.
Nella vostra programmazione ci sono dei temi molto presenti come l’inclusività, l’assistenza, la solidarietà, la diversità…
Quando i teatri e le strutture sono sovvenzionate e con funzione pubblica, il loro servizio deve essere rivolto a tutti i cittadini (nati in italia e non). Questo principio è ben presente nel nostro palinsesto. Ora per esempio abbiamo un progetto sulle periferie, lavoriamo molto sulla contaminazione tra i generi e curiamo molto l’aspetto dei nuovi cittadini italiani.
Abbiamo appena concluso questo spettacolo intitolato “Fuga dall’Egitto” dedicato a tutti profughi egiziani nel mondo. E’ giusto che il teatro stimoli delle riflessioni, e porti il pubblico a conoscenza di certi temi. Anche attraverso i grandi autori classici come Shakespeare. Le loro parole parlano al presente se le avvolgi in una certa contemporaneità.
Lo stesso vale per lo spettacolo “Far finta di essere sani” scritto 50 anni fa da Gaber, ma di grande attualità (l’ho seguito io nella regia, come “Jackie” e “Possiamo salvare il mondo prima di cena”).
C’è uno spettacolo che ha amato più degli altri?
No, mi piace pensare che i cartelloni che faccio siano parte di un unico spettacolo, una lunga storia che dura l’intera stagione.
Come ha trovato il pubblico dopo due anni di pandemia?
L’ho trovato commovente perché sta superando tutte le paure con coraggio, anche se i teatri stanno dimostrando molta attenzione con un forte controllo sul distanziamento che personalmente preferirei mantenere, per una forma di rispetto verso il pubblico.