Cosa ci affascina della recitazione di un’attrice? Cosa ci spinge ad entrare in empatia con una persona che, guardiamo attraverso uno schermo e che, fondamentalmente, non conosciamo? Quali sono i fili rossi che ci legano ad un’artista piuttosto che ad un’altra? Sono le domande che ci poniamo un po’ tutti quando apprezziamo il lavoro svolto da una protagonista, dopo la visione di un film o di una serie TV.
Quando vedi recitare Sara Lazzaro, per la prima volta, ti arriva addosso una concretezza inaspettata, un equilibrio naturale, un senso di appartenenza vitale. In quella grazia mai ostentata, in quel modo di osservare gli altri, costantemente con presenza e mai invadenza, in quella profondità necessaria che dona ai suoi personaggi, afferri tutto quello che ha da dire. In ogni donna che interpreta, ritrovi una parte di te, persino quella parte che non pensavi di avere.
Sara Lazzaro è un’artista reale, tangibile che non si risparmia mai di fronte agli esseri umani che racconta. L’ho immaginata, spesso nella mia mente, come un faro, che con la sua luce devasta ed incanta, protegge e spiazza. Ogni incontro che ho avuto la fortuna di vivere con lei, ha rappresentato uno spiraglio di ispirazione per il mio lavoro, per il mio modo di pensare e di essere. Potrebbe condividere tutto oppure restare in silenzio a sostenermi, la apprezzerei continuamente. Perché? Perché la sua persona esiste, in uno spazio vero e condivisibile, la sua anima c’è e la immagino attraversare migliaia di storie diverse, per poi tornare qui a raccontarmi ogni cosa che sente e vive.
Benvenuta, Sara. Sei tornata in TV nella serie Doc-Nelle tue mani. Come ci descriveresti Agnese, il tuo personaggio, nella seconda stagione?
Nella seconda stagione il personaggio di Agnese attraversa un’ulteriore evoluzione. Porterà con sé nuove consapevolezze, i conflitti e le trasformazioni della prima stagione, ma a questi si aggiungeranno nuovi livelli che la porteranno a cambiare – o meglio – ad evolvere la sua forma. Anche Agnese porta dentro di sé l’esperienza del Covid, e tutto quello che conseguentemente ne comporta, sia da un punto di vista pratico (per via dell’inchiesta che coinvolgerà l’Ambrosiano, il suo ruolo di direttrice sanitaria è a rischio) sia da un punto di vista interno, emotivo.
Inoltre, un elemento fondamentale e determinante di questa seconda stagione per Agnese è l’arrivo poco prima dello scoppio della pandemia di Manuel, il bambino che, alla fine del primo episodio, viene affidato a lei e Davide.
Agnese è una donna ricca di sfumature, contiene dentro di sé la forza, l’amore, il dolore, la vita che si fa in pezzi e poi torna a rinascere. In che modo l’hai costruita e come ti sei avvicinata alle sue battaglie e ai suoi sentimenti, spesso complessi ma così reali?
Innanzitutto, sono felice che si percepisca questa stratificazione, complessità. Penso sia una delle soddisfazioni più grandi che si possano avere da interprete, sapere che il pubblico ha seguito e compreso il percorso del personaggio.
Sono partita dalla sceneggiatura, come sempre. Mi immergo e cerco di capire che tipo di “agente” sono nella narrazione, e come mi inserisco nel disegno globale della storia, in che relazione sono con gli altri personaggi.
È stato fondamentale avvicinarmi alla storia di Pierdante Piccioni e fare un percorso di preparazione al Gemelli di Roma prima dell’inizio delle riprese della prima stagione. Ho avuto modo di seguire un primario di medicina interna e la sua squadra per vari turni di lavoro, e ho annusato l’aria dell’ospedale, degli uffici, e soprattutto ho parlato con le donne di questo ambiente e mi sono confrontata con loro. Perché anche questo era fondamentale, per me, percepire e raccontare “la donna” in questo ambiente.
Ci sono molte variabili che non mi appartenevano di questo personaggio: avevo quasi 8 anni in meno ad inizio progetto, non sono madre e non ho mai ricoperto un ruolo dirigenziale. Mi sono posta dei quesiti fondamentali: sull’amore, sulla famiglia, sul senso di perdita, sull’essere feriti, sentirsi traditi, impotenti.
E ho cercato la materia, il corpo di questo personaggio, in quello che veniva delineato in scrittura dalla sceneggiatura: nel suo modo di porsi, nelle parole che sceglieva di dire, come reagiva, cercandola nei silenzi, negli spazi bianchi tra le battute delle scene, capire il “movimento”, l’azione di questa donna, per costruire il suo ‘corpo’.
Te lo ricordi il primo incontro con l’Arte? Quando hai capito che avresti fatto l’attrice per tutta la vita?
Forse non è stato un primo incontro consapevole. Forse ne ero al cospetto, ma non sapevo come venisse chiamato, ma sono sicura che l’ho “sentito”, e riconosciuto.
Fin da bambina, l’Arte ha sempre fatto parte della mia vita. I miei genitori – papà ex-calciatore professionista e giornalista sportivo, mamma americana, insegnante accademica – hanno cresciuto me e mio fratello circondati dalla pittura, dalla musica, dal cinema, dalla fotografia.
Quando ero piccola, vivevo con la matita in mano, persa nel foglio bianco. Immaginare e disegnare. Già avevo deciso che sarei andata al Liceo Artistico – e così ho fatto – indirizzo Architettura- e lì ho incontrato la recitazione, per gioco.
Volevo esplorare l’arte in questa forma, in cui io stessa sono il veicolo e mi sono, quindi, iscritta a un laboratorio di teatro
Ho subito riconosciuto il palco come un luogo che mi apparteneva, mistico e magico. Dopo il diploma, mi sono iscritta allo IUAV di Venezia per Architettura e Arti Visive e dello spettacolo, ma ho continuato a partecipare a diversi gruppi teatrali a Venezia.
E poi, ho deciso che dovevo provarci sul serio. Andai a Londra, feci i provini per due scuole ed entrambe mi offrirono un posto. Scelsi il Drama Center di Londra e lì mi sono diplomata.
Diciamo che fin da subito ho capito che mi sarei occupata di “Arte” per tutta la vita. Che sia recitazione, scrittura, esplorazione con la musica o affrontare uno dei miei primi desideri, la regia, penso che una cosa non escluda l’altra.
Nel tuo percorso artistico, quali sono i ruoli che speri di incontrare e raccontare in futuro e perché?
Voglio raccontare storie necessarie, vere, anche scomode. Voglio raccontare storie di donne e di uomini più aderenti alla nostra contemporaneità, esplorare quell’iceberg sommerso che in pochi hanno il coraggio e la leggerezza di approcciare. Voglio essere un veicolo per raccontare il nostro tempo. Ho iniziato per quel motivo, ed è quello che spero di continuare ad incontrare nel mio cammino.
Penso ad uno dei temi della mia tesina di laurea: il Royal Court Theatre. Questo teatro fu il luogo della rivoluzione del linguaggio teatrale inglese, casa della sperimentazione, dello scambio, ( qui debuttò “Look back in anger“ di John Osborne nel 1956 – un testo che cambiò per sempre il teatro/scrittura contemporanea). È un teatro che è radicato nella sua missione, quella di raccontare la società, l’essere umano, avere un ruolo politico e sociale – è rimasto fedele a ciò che rappresentava il teatro, la messa in scena, ai tempi dell’Antica Grecia. Ecco, io voglio far parte di questo processo.
Quali sono le artiste e gli artisti che ti ispirano quotidianamente nella tua vita e nel tuo lavoro?
Se parliamo di Muse, ti dico Meryl Streep e Kate Winslet. Due attrici che si mettono sempre in gioco, non danno mai nulla per scontato
Un altro “faro” è Mark Rylance : sono ipnotizzata dal suo lavoro dalla prima volta che lo vidi recitare in teatro al Royal Court di Londra in Jerusalem. Un’esperienza radicale, che cambiò la mia percezione della messa in scena e della recitazione.
In, generale sento che ogni giorno trovo ispirazione dalle mie colleghe, sia come artiste che come donne e madri, per come portano avanti il loro percorso, la loro crescita, le loro battaglie. Posso dire lo stesso anche di molte donne che non necessariamente fanno il mio mestiere, ma che con la loro forza, resilienza sono benzina e fari. E tra questi ci sono anche molti uomini.
Chi è Sara come artista e come essere umano, vista attraverso il suo stesso sguardo?
Forse, visto il mio incontro inconsapevole con l’Arte, non riesco a fare una separazione netta. Chi sono è imprescindibile dall’artista.
“Artista” è una parola difficile di cui appropriarsi. Le due cose si informano a vicenda, l’una con l’altra. Penso di essere in continua ricerca, sia nella vita che nell’arte.
Sono ben consapevole della costante evoluzione che c’è in atto. Rifletto molto su chi sono, su quali siano le fondamenta, l’humus del mio essere artista.
Sento che negli ultimi tempi, in generale come civilizzazione, ci stiamo desensibilizzando a cosa vuol dire essere umani, sia con il nostro pianeta che tra di noi, nella società.
E io non voglio deumanizzarmi. Penso sia fondamentale ogni giorno cercare e ritrovare il valore nelle cose, nello scambio e lavorarci.
Mi sento molto fortunata delle persone care che mi circondano, poche – ben selezionate – ma che mi arricchiscono, mi accompagnano e mi insegnano tanto, sempre.
Se dovessi descrivere la parola “attrice” attraverso un’immagine quale sarebbe?
Spesso quando mi viene chiesto di descrivere che cosa sia l’attore, (il ruolo, la sua figura, la sua “azione”), racconto la similitudine che trovo con la creta.
L’attore è come un blocco di argilla, con la sua consistenza, il suo colore, la sua malleabilità, duttilità. Tutte proprietà “personali”, che lo/a caratterizzano, sì, ma che lo rendono anche unico/a . Questo ‘pezzo’, può essere plasmato in diverse forme, può diventare quadrato, bassorilievo, vaso, una figura umana, animale, astratta.
Il baricentro della trasformazione è il ruolo che devi ricoprire per “agire” nel movimento della storia che devi raccontare, assieme a tutti gli altri elementi della narrazione. Ma qualsiasi forma possa prendere, è sempre creata da quella materia iniziale, da quel blocco di argilla e quel blocco non è un limite: è la cosa che ci rende unici.
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