Interprete dei suoi tempi, anima e cuore di un movimento, creativo multidisciplinare e narratore digitale. Fondatore, tra gli altri, di The Curators Milan, il collettivo che ha promosso Rewild, percorso sociale e artistico dedicato ai temi del cambiamento climatico che nel corso di un anno racconterà una storia suddivisa in sei capitoli attraverso altrettante installazioni artistiche. Frankie Caradonna, regista e fotografo, si racconta in questa In Conversation esclusiva.
Domanda. Un regista con una debolezza per l’arte? Com’è iniziato tutto?
Risposta. Un padre amante della musica, una madre divoratrice di libri e uno zio artista ad Amsterdam hanno sicuramente impresso curiosità ed apertura nella mia infanzia. Credo però sia iniziato tutto dalla letteratura francese del diciannovesimo secolo che mi ha ispirato a scrivere poesie da adolescente e sceneggiature da adulto. A Bologna quando un compagno di università mi regala una Nikon FE, arriva la fotografia in bianco e nero dei ’50 e la metafora si cristallizza in un’immagine Rissa. Da qui l’incontro con Berengo Gardin, la collaborazione con la Fondazione Fratelli Alinari Rino all’inclusione nel Portrait Of Humanity con Magnum e il British Journal of Photography. Quando infine ho scoperto la settima arte e come le immagini potevano mettersi in movimento, ho avuto una vera epifania, non ho avuto dubbi; da autodidatta prima e con una borsa di studio a Milano dopo mi sono dedicato quasi totalmente al montaggio e alla regia e qui sono confluite tante cose e tante altre hanno iniziato ad acquisire senso e spessore nel mio percorso. Ho poi consolidato la mia cifra da autore a Londra dove ho vissuto permanentemente per più di dieci anni. Londra ha sicuramente definito il mio linguaggio: qui ho lavorato con Nowness e con il British Film Institute oltre a segnare una rappresentanza con Great Guns UK, e qui è dove ho avuto la possibilità di confrontarmi con tantissimi talenti da tutto il mondo. Mi trovo temporaneamente a Milano dove con Lucia Emanuela Curzi, Tomaso Cariboni, Dario Spinelli e Stefano Gagliardi, ho fondato il collettivo di artisti e creativi The Curators Milan e con questo ho creato REWILD, progetto pronto a debuttare il 19 Gennaio con PROLOGUE: DIATOMS IN THE MULTIVERSE, il primo di una serie ciclica di art installations.
D. Il 2020 è stato un anno foriero di profondi rivolgimenti strutturali nel tessuto sociale e artistico, come vede l’engagement motivazionale del suo team?
R. The Curators Milan nasce dalla necessità di creare un movimento artistico di resilienza culturale con un drive positivo che possa indagare, trovare, mostrare, suggerire delle strade; formato da artisti e creativi dalla solida esperienza internazionale il collettivo porta a Milano qualcosa che non c’era in un momento in cui persino grandi musei ed istituzioni vivono la frustrazione di restare chiusi. La motivazione è molto forte e a valanga il progetto continua a crescere giorno dopo giorno.
D. Quanto di questo simposio creativo abbraccia il pensiero fisico e quanto quello virtuale in uno scambio che convive per le tecniche anche con il passato?
R. L’equilibrio tra fisico e virtuale viene determinato durante il processo creativo con gli artisti coinvolti e si mostra nel dialogo fra opere, nel caso del Prologue fra una scultura di ferro, il Dardo di Ludovico Bomben, che stressa la fisicità poggiandosi su un magico quanto fragile equilibrio basato sulla formula del Fibonacci, e l’ologramma di una diatomea, a cui punta il dardo di ferro, che ne enfatizza l’evanescente presenza, il sottile equilibrio fatto di forze invisibili, un equilibrio che può essere fonte di ispirazione.
D. La sostenibilità è una colonna portante della società consumista odierna, inserita in una concezione democratizzata della catena dei valori non solo nell’aspetto ambientale ma anche sociale. Come si instaura la scelta nel progetto di soggetti tematici legati al Climate Change?
R. Credo che la maggior parte di questi problemi nasca dalla visione antropocentrica dell’universo. Rewild vuole enfatizzare la bellezza e la centralità della natura e la forte interconnessione che la lega all’uomo, riflettendo sull’empatia per evocare la memoria di un equilibrio che la Terra ha costruito nell’arco di migliaia di anni e che l’uomo é riuscito a compromettere in poche centinaia. D
D. In quali altri settori gli studi italiani possono avere una strategia che valichi i confini?
R. Negli ultimi dieci anni trascorsi a Londra e viaggiando moltissimo ho realizzato alcuni dei limiti dell’Italia. Con questo progetto apportiamo qualcosa di nuovo ad un flusso artistico internazionale che in Italia stenta ancora a trovare un proprio spazio. Ovvero un approccio estetico di alto livello alle digital arts & new media e l’enfasi sui loro aspetti più emotivi rispetto a quelli più ludici o legati al learning. Dare un’identità scultorea ad un render 3D. Credo che per valicare i confini sia fondamentale che l’Italia apra i propri ad un’estetica più autentica, contemporanea, visionaria, come riesce a fare nei suoi settori di eccellenza di moda e design. Milano stava iniziando a scoprirsi una città con aspirazioni davvero internazionali, e dopo più di dieci anni all’estero, per me era stato meraviglioso sentire la forza delle spinte artistiche indie in città ma poi la pandemia ha compromesso molte cose.
D. Mai in come questa momento storico si va esacerbando il rapporto uomo-natura, talora imposto come priorità nell’agenda di tutti. E se gli ultimi tempi hanno evidenziato ancora di più l’importanza di preservare la biodiversità, legata a doppio filo con la salute, la pandemia ha anche messo l’accento sull’importanza di sentirsi parte vitale di una comunità, dove le scelte del singolo impattano sul resto del Globo. Credi che l’arte possa sortire oltremodo uno spiazzamento dei meccanismi routinari?
R. Credo che uno degli inganni maggiori sia pensare all’uomo e alla natura come qualcosa di separato; in molte comunità indigene la parola “natura” non esiste. Per spezzare le routine c’è bisogno di un corto circuito che spesso è causato da un’esperienza, da un trauma o da un sogno fra le altre cose. Rewild vuole gettare le fondamenta per costruire un ponte, creare uno spazio di riflessione, un momento di forte presenza giocando con i sensi, poiché l’arte ha il potere di essere libera e mostrare qualcosa che di solito non si vede: nel prologo in scena dal 19 Gennaio, Rewild mostrerà proprio qualcosa che non si vede ma che è così importante che se non ci fosse non ci sarebbero né aria da respirare né catena alimentare: le diatomee, appunto.
D. Quali sono per lei i driver di crescita per il futuro di settori come le fine arts & crafts e le digital arts & technologies?
R. Se approcciati come parte integrante dell’economia possono plasmare la visione di ogni parte della comunicazione della nostra vita in tutti i servizi sia online che offline. Credo che possano essere loro stesse il drive di un cambiamento, di uno switch di paradigmi cognitivi soprattutto quando spinte da una visione olistica del mondo. In questo senso credo saranno sempre più importanti le collaborazioni fra settori e professionalità diversi fra loro e trasversali. Il progetto Rewild ad esempio avrà una seconda vita online in cui arte, scienza e attivismo potranno confrontarsi, ma questo prendilo come uno spoiler.
D. Un viaggio destinato a valicare ogni confine?
R. Credo che il vero confine sia nella corteccia celebrale di ognuno di noi; per questo Rewild è un viaggio virtuale che può diventare reale, attraverso un nuovo mondo in cui la natura ha di nuovo un valore e gli animali non si estinguono se non ad un ritmo naturale; un viaggio cosı̀ bello che possa spingere gli esseri umani a diventare nel post antropocene protagonisti del cambiamento. I progetti di Rewilding rappresentano alcuni dei metodi più economici e di maggiore impatto nella salvaguardia della biodiversità.