Saul Zanolari, giovane artista dalle idee molto chiare, ci racconta il suo percorso artistico e i suoi progetti futuri.
Cosa significa essere un cross artist, come definiresti il tuo stile?
Cross artist è semplicemente un artista che sperimenta e che non si limita ad utilizzare un solo medium o che lo usa non in modo esclusivo. Questo, oltre alla quasi completa indipendenza del mio lavoro, definisce bene quello che ho fatto finora.
La verità è che ho iniziato in un momento in cui solo pochi dichiaravano l’uso di mezzi digitali e quindi il mio lavoro è stato preso per fotografia (perché ho usato carta fotografica), per pittura (perché la tecnica ricorda molto l’atto di dipingere), per disegno, etc.
Tutto è parzialmente vero così come è parzialmente falso. Ho usato anche supporti diversi: dalla carta fotografica (fotosensibile) alla carta di cotone, passando per la ceramica, così come il ricamo e la sublimazione su granito. Tutti questi elementi fanno parte del mio lavoro, rendono difficile descriverlo e forse confondono anche un po’, anche se stiamo parlando solo della parte tecnica. Il nucleo centrale e concettuale delle opere (che è quello che in fondo mi interessa), resta coerente e tutto sommato legato ad una visione il più delle volte critica e descrittiva dell’essere umano e della società nella quale è inserito.
Lo stile? È cambiato molto dai primi lavori ad oggi. Penso si possa definire arte digitale (perché così dipingo) con delle influenze pop surrealiste e anche kitsch. Devo ammettere che l’arte rinascimentale, l’arte fiamminga, così come l’arte statuaria greca classica hanno sempre esercitato un enorme fascino su di me.
I tuoi studi di filosofia sono stati un mezzo per esprimere meglio la tua creatività?
Essere dottore in filosofia mi ha aiutato molto nello strutturare un pensiero sul quale poggiare un’opera d’arte. Ha fatto da fondamenta. È vero che l’intuizione e la parte emotiva sono altrettanto importanti, ma quella razionale, se coltivata, aiuta ad esprimere meglio quel che si intende dire attraverso le immagini. È come se fosse l’architetto dietro le mie opere.
Pensi che il concetto di arte possa essere declinato all’ infinito e reso fruibile per tutti?
Secondo la mia esperienza l’arte spaventa molto chi non è del settore. È una sorta di autoesclusione fatta dal pubblico non coinvolto. L’arte in senso stretto non sarà mai per tutti, ma proprio per la sua fluidità e per il fatto di poter essere declinata in infiniti (o quasi) modi, si infiltra – consapevolmente o meno – in così tanti ambiti della realtà che non solo è fruibile da tutti, ma è imposta anche a chi di arte non si vorrebbe interessare.
Esempi di queste infiltrazioni si trovano facilmente nella pubblicità, nelle illustrazioni, nel design, nell’architettura, nella letteratura, moda, cucina. Mi viene in mente un esempio personale. Nel 2010 ho dipinto il ritratto di Lady Gaga. Nel mio quadro si vedono Lady Gaga affiancata da Julie Andrews che canta con un chiaro richiamo al film Mary Poppins. Lady Gaga nel mio dipinto è in vestaglia e ha i capelli color arcobaleno.
Pochi giorni dopo aver concluso l’opera ho incontrato Diane Pernet che ha spedito una copia dell’opera via email a Nicola Formichetti, al tempo direttore creativo di House of Gaga. Pochi mesi dopo Lady Gaga ha fatto uno spettacolo in occasione di una sfilata di moda e aveva i capelli color arcobaleno (così come per la promozione dell’album Joanne anni dopo) e nel 2015, alla notte degli Oscar si è presentata sul palco in compagnia di Julie Andrews.
Al di là del significato dell’opera, questo è un esempio di come le idee che nascono nel mondo dell’arte poi possano venir riproposte e sfruttate in altri ambiti colpendo ben più degli interessati all’arte in senso stretto.
Le tue opere sono state esposte in diversi paesi del mondo. Hai notato delle differenze nella loro percezione?
Direi che ogni popolo sviluppa una sorta di coscienza collettiva sulla quale poi costruisce un linguaggio che aiuta ad interpretare e leggere la realtà. Questa coscienza collettiva nasce a partire dal passato, dalla storia, da modelli. E proprio questi ultimi sono quelli sui quali ho lavorato ed insistito nei miei lavori.
I modelli, gli archetipi, sono vissuti e percepiti in modi così distanti da un posto all’altro, da far credere che si parli di opere differenti. Nel 2010 ho dipinto una serie di modelle con i baffi su sfondo nero. Si tratta delle top model degli anni novanta Claudia Schiffer, Naomi, Cindy Crawford e Linda Evangelista. Nello specifico Claudia Schiffer porta dei baffi hitleriani. In Europa è stato impossibile esporla, perché ritenuta una provocazione, ma in Asia è rimasta appesa alle pareti di una galleria per soli dieci minuti perché in quattro se ne sono litigati l’acquisto.
Con il tuo progetto “Fashion Icons” ti allacci al concetto di post human. Ci spieghi il significato?
Post-human è un termine preso in prestito da Jeffrey Deitch che nel 1992 definiva così il nostro mondo e gli esseri che lo popolano. Non più solo umani, ma grazie a chirurgia estetica, nuove tecnologie e scienza hanno acquisito un nuovo aspetto e dei nuovi modi di percepirsi e percepire la realtà circostante.
Da quello che mangiamo, a quello che indossiamo, così come il nostro corpo, tutto piano piano ci allontana dalla natura e dalla nostra primitiva umanità rendendoci degli esseri post-umani.
È in questo contesto che son state dipinte le modelle e icone del mondo della moda, colpevoli di aver diffuso stereotipi che poco hanno a che fare con l’accettazione di sé e la naturalità. I visi sono visibilmente tirati, i baffi fanno da contraltare alla femminilità esasperata di chi, per lavoro, porta con sé un messaggio di omologazione, di chi deve fare da “modello” per una larga fetta di popolazione.
Siamo al di là del bello e del brutto. Quello che importa è quanto si diffonde un messaggio. Anche per questo, per esempio, Anna Wintour è stata messa a servire in un Mc Drive.
Alcuni tratti delle tue opere ricordano delle immagini surrealiste. Ci sono delle correnti artistiche che effettivamente ti hanno influenzato?
Sono ispirato principalmente da ciò che non è artistico in senso stretto, ma che racchiude in sé creatività e ingegno. Ci sono oggetti di uso comune, o immagini, che per me sono più creativi dell’arte stessa.
Se dobbiamo parlare di arte in senso stretto, come detto sopra, le correnti artistiche che da sempre mi hanno affascinato e quindi ispirato sono la statuaria greca classica, il rinascimento italiano, l’arte fiamminga, così come buona parte di opere del pop surrealismo (da Ray Caesar a Mart Ryden), il mondo ultrakitsch di Pierre e Gilles, ma anche opere di artisti minori, magari anche a me sconosciuti.
La tua ultima opera “Boredom” è stata presentata come un’istantanea dell’epoca contemporanea. Si tratta di un messaggio provocatorio?
Quando dipingo (così come quando nella vita parlo) non ho quasi mai l’intenzione di provocare (nel senso peggiore di questo termine). Il più delle volte mi limito a descrivere una situazione tentando di guardarla senza pregiudizi. Anche se, semplicemente descrivere la realtà molto spesso si traduce in una vera e propria provocazione.
SZ Boredom è una descrizione della natura umana analizzando uno dei suoi motori: la Noia. Ho ritenuto che fosse proprio partendo dalla Noia che molte delle opere del passato e del presente siano state realizzate. I bisogni fondamentali dell’uomo (quelli senza i quali non sopravvivremmo) sono pochi e semplici: mangiare, dormire, bere, forse il sesso. Una volta sfamato, l’uomo non è predeterminato, è in uno stato di noia, nel quale può dedicarsi al superfluo, al non essenziale.
Ed è qui che nascono le più belle opere d’arte dell’ingegno, ma anche le peggiori come le guerre. In SZ Boredom ritroviamo tutto questo partendo da Maria Antonietta e Luigi XVI decapitati, fino ad arrivare alla Venere di Milo.
Hai in mente nuove sperimentazioni artistiche nel futuro … qualche progetto che puoi svelarci?
Lavorare in digitale offre dei grandi vantaggi, ma anche uno “svantaggio”: lo scollamento tra il momento in cui l’opera è conclusa e quello in cui viene realizzata.
In questo momento sto cercando di realizzare SZ Chapel e SZ Boredom in Jacquard. Due giganteschi arazzi di cui uno, SZ Chapel, sarà il più grande mai realizzato. Per far questo sto cercando sponsor pubblici e privati e un luogo ampio a sufficienza per accogliere i suoi 32×14 metri. Posso dire che sono a metà dell’opera e che spero che tra poco potrò dare inizio a questo progetto ambizioso che trovo anche estremamente stimolante.