Vi ricordate del film della Pixar ” Inside Out” sulla forza delle emozioni della giovane protagonista Riley, o di quando Battisti ci suggeriva che… ” tu chiamale se vuoi emozioni” ? Non è affatto semplice far capire esattamente agli altri cosa si prova e ancora più difficile diventa capire chi appartiene ad un altro popolo, perché le emozioni sono determinate dal contesto culturale e se il linguaggio non le definisce potrebbe sembrare che non esistano proprio. Così ogni popolo ha creato parole per definire delle emozioni che però non vengono universalmente vissute come tali. Vediamo qualche esempio: letteralmente è il termine con cui si indica la vela di una barca, ma “Hwyl” è una parola di derivazione gallese, che nell’uso comune significa esuberanza o eccitazione, un po’come se ci si stesse muovendo insieme a una folata di vento. La si usa tutte le volte in cui si vuole descrivere un lampo di ispirazione, l’entusiasmo di un cantante o il buonumore che può generare una festa. E quel senso di vuoto che talvolta rimane dopo la partenza di un ospite? Anche se spesso si prova un certo sollievo, può restare addosso una sensazione attutita, ovattata – come se su di noi fosse calata una nebbia fitta e ogni cosa ci sembrasse priva di senso. La tribù Baining che vive tra le montagne della Papua Nuova Guinea ha una tale familiarità con questa sensazione da averle dato persino un nome: “awumbuk“. I Baining infatti, credono che i visitatori si lasciano dietro una sorta di pesantezza quando partono, in modo da poter proseguire il loro viaggio leggeri. Questa foschia opprimente aleggia nell’aria per tre giorni, creando un senso di distrazione e di inerzia e interferendo con la quotidiana capacità della famiglia di occuparsi della casa e dei campi. Così, dopo che i loro ospiti se ne sono andati, i Baining riempiono una ciotola d’acqua e la lasciano in casa per una notte intera, perché assorba l’aria pregna della visita dei viaggiatori. La mattina seguente, tutta la famiglia si alza molto presto e va a gettare l’acqua tra gli alberi. Dopodiché la pesantezza è svanita e la vita può ricominciare in tutta la sua normalità.
Dalla A di “abhiman” ( orgoglio di sé quando si viene offesi ) alla Z di “zal” ( la malinconia polacca ), “L’Atlante delle emozioni” di Tiffany Watt Smith, ricercatrice della Facoltà di English and Drama, alla Queen Mary University di Londra, raccoglie ben 156 emozioni con numerosi riferimenti scientifici, filosofici e letterari. Non mancano termini quali “iktsuarpok” – quando stiamo per ricevere una visita può farsi largo in noi una sensazione di irrequietezza, presso gli inuit questo senso di attesa trepidante, che li porta a scrutare le distese di ghiaccio per vedere se ci sono slitte in avvicinamento, viene appunto chiamato “iktsuarpok “, – fino al bellissimo giapponese “amae“, ovvero lo struggente desiderio di abbandonarsi con totale fiducia a qualcuno.