Parlare di Zaha Hadid è difficile ed emoziona, ma come architetto e designer non posso esimermi dal celebrare il valore artistico di questa total artist contemporanea la cui recente scomparsa ha portato con sé molta commozione. Il patrimonio artistico e visionario che Zaha Hadid ha lasciato è, e lo sarà maggiormente nei prossimi anni, fonte di ispirazione per tutti i professionisti che vorranno cimentarsi nella progettazione architettonica e nel design senza marcare il confine tra i due ambiti.
Zaha Hadid ha annullato letteralmente questo confine sia concettualmente che formalmente, attraverso le forme stesse delle sue creazioni, generate da linee fluide, talvolta intrecciate in apparente spontaneità ma con complessità costruttiva di altissima raffinatezza tecnica. Forme che, infine, risultano evocatrici di una poetica dimensione onirica.
Osservando il progetto “Unique Circle Yachts” e il design delle “Melissa Shoes” è ben intuibile il superamento del confine tra ciò che è pensato per essere indossato e ciò di cui si fruisce, dello spazio in cui si entra e da cui ci si lascia indossare; per cui un edificio residenziale, pubblico o privato, un museo o ancora un complesso sportivo e il concept design di un accessorio di moda sono la sintesi di un’unica idea di stile di vita prima ancora che di linguaggio stilistico, un iter creativo con la stessa matrice formale. Un concetto questo che, in Zaha Hadid, è paragonabile ad un sogno modellato con la grazia e la forza espressiva di un donna innamorata del suo lavoro.
Delicata e potente allo stesso tempo, la sua architettura, se pur di grande impatto visivo, non è mai ostentata. L’una o l’altra realizzazione rimandano sempre alla riflessione sul medesimo concetto:
ciò che è grande è, allo stesso tempo, anche piccolo e ciò che è fruibile è anche indossabile.
Lo stesso risultato lo ha ottenuto nel design di gioielli e borse, come la “Peekaboo” per Fendi o la collezione “Cristal Glaze” per Swarovski, e nel concept degli stessi elementi espositivi, come l’installazione per la linea “Serpenti” di Bvlgari.
«Dal cucchiaio alla città», lo slogan formulato da Ernest Rogers nel 1952 agli albori della nascita del design, è oggi più che mai il modus operandi di Zaha Hadid, che dai grandi maestri ha ereditato l’onere e la passione per la progettazione non solo degli spazi in cui l’uomo contemporaneo ha necessità di vivere ma di tutto ciò di cui ha bisogno per usufruirne.
Zaha Hadid ha dato a questa missione un colore nuovo, femminile e materno: osservando alcuni dei suoi progetti più noti, si potrebbe azzardare una similitudine fra le forme avvolgenti e rassicuranti e il grembo materno.
Le linee fitomorfe e organiche delle sue creazioni dimostrano che il macro dell’architettura, ad esempio il progetto del “King Abdullah Financial District Metro Station” ed il micro del design, come la “Icone Bag” per Louis Vuitton, sono creazioni interscambiabili, infatti, questa può essere senz’altro la machette dell’ edificio. Si potrebbe fare questo gioco di similitudini analizzando ogni suo progetto e accessorio moda. Un gioco di ruoli e forme concepite come un neo-decostruttivismo alla Frank Gehry le cui linee spigolose e riflettenti diventano, in Zaha Hadid, fluide e morbide. Come creta tra le mani, le forme finali delle sue creazioni, nascondono il tecnicismo complesso figlio della computer grafica, rendendole lievi e leggere come nuvole mutabili a cui noi tutti volgiamo lo sguardo meravigliati.
In questo vi è la grandezza di Zaha Hadid, capace di aver percepito il desiderio umano di fruire spazi moderni avvolgenti e onirici; e poiché il ruolo sociale dell’architetto è come quello dello stilista di moda, ovvero di anticipare e rappresentare i nostri desideri, posso dire con certezza che Zaha Hadid ha unito le due arti in un unica disciplina.
Avrei voluto discutere di tutto ciò con lei, parlare delle forme eleganti e degli spazi magnetici della sua architettura, della sua capacità di muoversi tra moda e design in maniera continua e trasversale. Uno stile fatto di forme di cui non si può vedere quale sia il punto di inizio e quale la fine, de-costruite rispetto alle forme dell’architettura classica e razionale. De-costruite perché specchio del desiderio contemporaneo di vivere spazi morbidi, quasi indefiniti come fossero in continuo mutamento.
Due le volte in cui ho incontrato Zaha Hadid senza riuscire a parlarle. La prima, al “Bvlgari Hotel” di Milano durante la presentazione della collezione gioielli “Serpenti” e la seconda a Miami, al “Perez Museum”. E’ qui che ho promesso che non mi sarei più fatto sfuggire la possibilità di celebrare il suo lavoro che tanto ammiro.
Ma la vita non smette mai di stupirci e se poco tempo fa ho dovuto rinunciare al privilegio di conoscerla, oggi mi si è presentata
l’occasione di incontrala una terza volta, proprio qui in questo articolo.
Ed eccomi qui, dunque, a scrivere emozionato della Signora dell’architettura contemporanea mondiale.
di Alessandro Romito: www.alessandroromito.com
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